Il numero di ragazzi che praticano sport di squadra sta diminuendo vertiginosamente, con gli esperti che danno la colpa del fenomeno al desiderio dei genitori per i cosiddetti elite travel clubs (ovvero squadre di vertice che disputano leghe internazionali), specializzazione per una sola ed unica disciplina e dedizione esclusiva agli studi nel rimanente tempo libero. La conseguenza è il crollo della partecipazione e delle prestazioni nelle leghe dilettantistiche.
Questi i dati di uno studio realizzato in Usa e che potrebbe essere predittivo per gli scenari nostrani. Nel 2014 più di 26 milioni di bambini dai 6 ai 17 anni praticano sport di squadra, con una flessione del 4% rispetto al 2009 (fonte: Sports and Fitness Industry Association), mentre la percentuale dei praticanti di attività sportive totali è scesa del 10%.
Parte della riduzione è dovuta probabilmente alla recessione economica, soprattutto nelle aree metropolitane periferiche dove il livello dei redditi è più basso. Ma il timore degli esperti è che siano in gioco forze socio-economiche più importanti e forti a guidare questo fenomeno.
I giovani stanno praticando meno sport e i meno talentuosi sono lasciati indietro in leghe ricreative con mediocri allenatori, partite squilibrate e il messaggio che non sono abbastanza bravi. Il 70% smette con lo sport all’età di 13 anni. Il sistema è così disegnato per incontrare i bisogni dei ragazzini maggiormente dotati, senza porre l’accento sulla partecipazione ma solo sull’eccellenza.
E coloro che hanno studiato il fenomeno sanno di chi è la colpa di questo cambiamento: i genitori.
Nonostante alcuni analisti di Wall Street abbiano espresso preoccupazioni per come questo cambiamento possa impattare sull’economia dei beni sportivi, il problema rimane più prettamente personale: lo sport è fondamentale per l’impostazione che fornisce agli atleti ed i valori che trasmette.
I ragazzi che praticano attività hanno meno probabilità di incappare in disturbi dell’alimentazione, hanno mediamente punteggi più alti nei test scolastici, maggiori probabilità di frequentare l’università e raggiungere livelli di salario più alti. E quando questi ragazzi attivi diventano genitori, iniziano di nuovo il processo con i loro figli.
Negli ultimi 20 anni lo sport è diventato però un investimento per molti genitori, qualcosa che credevano potesse portare i ragazzi all’università anche se le probabilità sono svilenti. I genitori ora iniziano i loro figli allo sport da lattanti, manovrano per inserirli in squadre d’eccellenza che performano in tutto il continente e spendono piccole fortune in allenamenti privati, materiali costosi e viaggi verso tornei lontani.
Ma nessuno che si disturba di chiedere ai ragazzi cosa ne pensino. Ora però i ricercatori indipendenti di molte università stanno iniziando a sondare anche il loro di pensiero.
Da uno studio condotto su 150 ragazzini dalla George Washington University sono emersi 81 fattori di soddisfazione per i giovani atleti nel praticare sport.
Vincere si è posizionato solo al 48° posto.
Nei posti più in alto nella lista sono invece indicate le dinamiche positive all’interno della squadra, il valore del sacrificio, dare tutto per il semplice gusto di sfogarsi e la soddisfazione di imparare da un buon allenatore.
Sorprendentemente la prima motivazione per l’abbandono è invece la fine del divertimento.
Così è come appare oggi il sistema sportivo: i ragazzini più talentuosi giocano in squadre d’eccellenza e affrontano trasferte epiche già dai 7 anni (nonostante molti atleti sboccino molto dopo nello sviluppo), i migliori allenatori sono incaricati della loro formazione lasciando le leghe di quartiere a volenterosi ma meno capaci coach. I tecnici di queste squadre d’eccellenza spingono i loro atleti a concentrarsi solamente sul loro sport, trascurando qualsiasi altra attività fisica (nonostante studi evidenzino come ciò aumenti il rischio di infortuni, burnout e preparazione atletica completa)
Le leghe dilettanti diventano sempre meno sostenibili. I ragazzini intuiscono che sono considerati di serie-b e abbandonano velocemente. La qualità dell’allenamento non è così buona. Diventa un effetto a catena in grado di cambiar faccia all’intero sistema sportivo.
Questo il quadro che si profila grazie agli ultimi studi condotti negli Stati Uniti, dove salvo un cambio di tendenza repentino si sta sempre più definendo una spaccatura tra chi lo sport lo intende solo come divertimento e chi invece lo vive già dalla prima infanzia come una professione a tutti gli effetti. Ma questo è solo il quadro statistico di un Paese lontano, raccontaci tu invece qual’è l’aria che tira sui campetti d’allenamento italiani!